Skip to main content

Il blog di VeM

Viaggio in Palestina da Gerusalemme alle scuole nel deserto – 2° parte
foto di Valentina Nargino

Palestina | Viaggio in Palestina da Gerusalemme alle scuole nel deserto – 2° parte

11 Ottobre 2018

Ecco la seconda puntata dell’articolo della nostra viaggiatrice Benedetta, di ritorno da un viaggio molto speciale…

La pecorella dalle zampe spezzate

In valigia avevo messo, tra le altre cose e alcuni regali, una pecorella dalla sagoma in legno e ricoperta di lana fatta dai bambini beduini del campo vicino alla scuola di bambù di Wadi Abu Hindi. Dopo averla visitata, ci siamo trovati, appena fuori dal cancello, a far conoscenza e a scambiare un paio di chiacchiere con alcuni di loro. L’unico compagno di giochi, un asino molto ben addestrato, pronto a rispondere ai comandi soprattutto se battuto con un bastoncino di legno in modo deciso. Incuriositi dal vedere un gruppo di persone amichevoli nei loro confronti, hanno cominciato a sorriderci, a fare battute, erano davvero divertiti nello stare al gioco. Qualcosa si era rotto, il muro della distanza era caduto, frantumandosi in tanti granelli di sabbia. Piano piano, come attirati da una calamita, si erano aggiunti altri bambini più piccoli; tra questi, uno più timoroso degli altri, si accontentava di osservarci da dietro le spalle di un compagno.

Il paesaggio che circonda il campo e la scuola è molto aspro, roccia color ocra, sassi, vegetazione quasi inesistente. Non era stato semplice arrivare lì, la strada quasi inagibile per il sostrato pietroso e cumuli di rifiuti abbandonati tutt’intorno. I bambini sono abituati a muoversi con gli asini su e giù per stretti e tortuosi sentieri tra le dune, respirando la polvere sollevata dal passaggio occasionale di qualche macchina. Nell’attraversare la zona e percorrendo il sentiero di sassi che porta alla scuola di Bambù, avevamo avuto la fortuna di vedere, agile sul fianco di una duna, una volpe del deserto. Mi ha ricordato la storia del Piccolo Principe e l’amicizia che era nata tra lui e la volpe, il discorso sul senso dell’addomesticare, del creare legami e il significato della mancanza in una relazione di amicizia, di affetto. Acqua quanto mai necessaria in una terra così assetata.

Qualche tempo dopo, vediamo i ragazzi più grandi tornare con dei sacchetti. Dentro, alcune figure del presepe preparate da loro durante un laboratorio creativo curato da Vento di terra. Cominciano ad offrirle, una per dieci shekel, circa due euro. Prendo una pecora, la lana è ruvida, ma conserva il tocco, il tempo e la pazienza di piccole mani di bambini palestinesi, segno di un legame di simpatia che porterò a casa e conserverò con premura.

Pecora, spettatrice umile e muta della scena della natività.

Pecora, fonte di sostentamento per il popolo dei beduini palestinesi, una volta nomadi, ora costretti e relegati in aree svantaggiate, lontani dai servizi di base, ultimi tra gli ultimi, frammentati, dimenticati da chi conta.

A casa, una volta aperta la valigia, ho ritrovato la pecora con le zampe spezzate. Troppo fragili, non hanno resistito agli spostamenti e alle perquisizioni dei bagagli. La leggo da subito come una metafora della situazione del popolo palestinese e, in particolare, della popolazione beduina. Spezzati nella libertà di movimento, frantumati nel vivere una quotidianità serena come comunità.

La stessa mattinata della visita alla scuola di bambù, avevamo fatto visita ad altre due scuole del deserto, la scuola di gabbioni di sassi di Al Jabal e la scuola di gomme di Al Khan Al Ahmar in area C.

Viaggio in Palestina

Qui abbiamo incontrato Ibrahim, della comunità beduina e il rabbino Jeremy che, voce fuori dal coro, da anni si è votato alla causa palestinese. Ibrahim inizia il suo racconto offrendoci un caffè di benvenuto e ci narra di come le cose siano cambiate a partire dal 1967, anno della guerra israelo-palestinese. Da quel momento, la loro terra, all’interno della quale si spostavano come popolazione nomade è stata definita area militare e ciò ha portato a cambiare radicalmente il loro stile di vita, obbligandoli a vendere pecore e capre, unica fonte di ricchezza e sostentamento.

Con il ’67, non solo la vita di uomini e donne è stata stravolta, ma soprattutto quella dei bambini, impossibilitati ad andare a scuola. Per loro non c’erano trasporti garantiti e chi s’avventurava a piedi lungo la strada poteva rimanere vittima di gravi incidenti.

Viaggio in Palestina

In questo modo i bambini venivano derubati del loro diritto più importante, quello della conoscenza per potersi costruire un futuro sereno.

Tuttavia anche oggi, continua Ibrahim, la situazione non è molto diversa. Nonostante ci sia stato un considerevole aiuto da parte di alcuni paesi europei, tra cui anche l’Italia, con la costruzione di scuole per garantire ai bambini beduini il diritto all’istruzione, il loro futuro cammina ancora su un ponte fragile e traballante. Cosa potranno fare? Dove lavoreranno? Le domande che Ibrahim ci pone rimangono sospese in aria senza risposta alcuna.

La scuola di gomme di Khan Al Ahmar è infatti sotto ordine di demolizione. Tutto potrebbe accadere nell’arco di pochi giorni, o istanti, nessuno lo sa. Si è lottato molto, si è anche presentata un’istanza alla corte israeliana per tenere in piedi questa scuola, ma tutto sembra essere stato inutile. Durante la nostra visita, i bambini stanno partecipando ad attività ricreative e musicali sotto una grande tenda. Il vederli così uniti e gioiosi nel canto, attivi e spensierati, è uno spettacolo dal messaggio talmente potente che per un momento mi sembra che nulla della demolizione sia vero, che il vedere la speranza di una vita migliore calpestata dalla violenza di assurdi bulldozer sia solo e soltanto un brutto sogno e che la bellezza e il bene siano realtà nel futuro di questi bambini.

Le preoccupazioni di Ibrahim si rispecchiano nelle parole del rabbino Jeremy, arrivato in Israele circa 50 anni fa dagli Stati Uniti e attivista nei confronti della causa palestinese. “Sono cresciuto negli USA e da sempre immaginavo Israele come il miglior posto in cui vivere. Ma ora per me, ebreo israeliano, è difficile prendere consapevolezza di questa tragedia che sta andando avanti, a volte a parole, a volte a fatti”. Jeremy conosce a fondo la realtà palestinese perché la tocca con mano. Sa del desiderio di pace e serenità che vive nel cuore di tanti palestinesi e, allo stesso tempo, degli ostacoli enormi che rallentano il cammino di questo popolo verso la libertà. La povertà è uno dei più pesanti. La povertà rema contro ovunque, ma qui ancor di più. Se sei povero, la tua vita è fatica costante e peggio è se si ha una famiglia da mantenere. Se sei povero diventi invisibile, perché, davanti agli occhi degli israeliani, non vali nulla e non hai diritto nemmeno alla dignità di essere umano. Per aiutarci a cogliere le ripercussioni che qui causa la povertà, Jeremy ci ha raccontato una breve storia.

“Vogliamo una macchina nuova, mi hanno confidato alcuni amici palestinesi. Perché non la prendete usata, ce ne sono alcune in un ottimo stato a buon prezzo, li ho consigliati. No, tu non capisci, mi hanno risposto”. È una storia esemplare perché apre gli occhi. Per loro una macchina nuova significa passare più velocemente al check point, essere trattati con dignità e rispetto. Le parole di Jeremy suonano accorate. Usa le mani per aiutarci a comprendere meglio la relazione tra israeliani e palestinesi. La mano sopra rappresenta i dominatori e si abbatte su quella sottostante, i dominati, con violenza, restringendo il campo di movimento. Le due mani non sono a contatto, non c’è cooperazione, non c’è giustizia né equità.

Da entrambe le parti c’è la convinzione erronea che la situazione si risolverà quando uno dei due popoli se ne andrà nel proprio paese d’origine. Ancora una volta si apre un interrogativo. Si andrà verso l’integrazione o il divario si accentuerà sempre più?

Intanto c’è chi continua a lottare, in cerca della giusta strada. Tra queste persone c’è Jamil, un giovane agronomo che ha reagito alle prevaricazioni nei confronti della comunità beduina creando un programma speciale intitolato Sahari Eco tourism. Il fine è dare ospitalità a visitatori e pellegrini desiderosi di conoscere ed esplorare le bellezze del paesaggio palestinese attraverso escursioni, trekking e attività di carattere culturale. I ricavi vengono poi messi a disposizione dell’intera comunità sotto forma di offerte di lavoro e servizi. Sahari Eco Tourism si basa su un valore prezioso, oggi troppo spesso dimenticato, l’ospitalità. “L’ospitalità è una parte vitale della nostra cultura” conferma Jamil; “è difficile dire di no davanti a qualcuno che capita qui, siano pure soldati israeliani venuti in visita per sollecitarci ad andarcene”.

Il merito di Jamil e dei suoi collaboratori è stato di essersi reinventati in modo resiliente, di aver portato il mondo a contatto della realtà palestinese e, in particolare, beduina. Ma la cosa più bella è stato scoprire che per Jamil fonte di motivazione e fiducia nel progetto è ognuno di noi, così come ciascuno dei pellegrini di Eco tourism. “Ecco, conclude, chi viene qui non solo vive un’esperienza di sostenibilità e supporto alla cultura locale, ma impara qualcosa in più sulla storia dei beduini e ne darà testimonianza una volta rientrato nel paese d’origine”. Jamil ha ragione. Solo diventando dei portavoce coraggiosi a chi ignora, a chi è indifferente si aiuterà Ibrahim, Jamil e il popolo beduino a emergere dal deserto dell’indifferenza e a conquistare il sano benessere di una vita del tutto normale.

 

Se vuoi rileggere la prima puntata del racconto di viaggio in Palestina, clicca qui.

 

Viaggi Palestina